Non so se avete mai fatto caso, ma è l’inverno quello che regala i colori più belli: nitidi, intensi, saturi bellissimi nell’assenza della bruma primaverile, o della foschia data da uno spossato calore estivo.
E’ il freddo ciò che rende la luce rara e preziosa di questi giorni, così nitida e tagliente, capace di regalarci dettagli e sfumature quasi al di là del reale, la bellezza di quel che sta oltre desideri e aspettative…
In questo mi sembra che la luce del giorno invernale assomigli alla solitudine, che come il freddo però ci fa tanta paura. Proprio in questi giorni di festa, in cui si celebra il principio dell’accrescimento della luce, sentiamo maggiormente la mancanza e la perdita e ci confrontiamo col vuoto. Di ciò che manca, di ciò che non è mai stato, di quello che abbiamo perso o mai trovato, del fallimento delle nostre aspettative, del crollo delle speranze, dell’evidente inesistenza di un’amicizia, o di un amore…mentre crediamo, col cuore sofferente attanagliato da invidia e tristezza che in altre famiglie e in altre vite non accada (non è vero, succede a tutti…)
Ma che possiamo fare allora della solitudine, se ci troviamo forzati e controvoglia in questo stato?
Potremmo cercare di non starci e di non provarla e così può essere che tentiamo di riempire il vuoto di una perdita affettiva ripetendo esperienze mediocri o insignificanti, pur di ricostruirci una pallida imitazione dell’autostima e della fiducia perdute, spesso però ripercorrendo in automatico un pattern relazionale ricorsivo nella nostra vita e determinato da qualche analoga esperienza disfunzionale avuta in precedenza o addirittura da bambini…A questo punto però, reiterando l’approccio alla negazione della solitudine e al tentativo del suo evitamento, può innescarsi un altro meccanismo.
Infatti, come accade per tutti i comportamenti utilizzati impropriamente per gestire uno stato di sofferenza, pare che anche l’eccitazione dei nuovi incontri possa determinare l’abitudine a quel merviglioso stato dopaminergico che si determina soltanto durante le prime fasi di una relazione, costituendo così una specie di droga che ci porta a non approfondire mai un rapporto oltre la chimica, per mantenere lo stato dopaminergico passando da una persona all’altra in tempi brevi (massimo, ma proprio al massimo, 2 anni) e rinunciando alla bellezza di un rapporto intimo e profondo…così come può accadere in modo simile con la ricerca di esperienze pericolose, il consumo di alcol o altre sostanze o lo shopping compulsivo o il cibo, che utilizziamo per dimenticare ma che diventano in seguito un problema di dipendenza a sé stante…
La solitudine, se ci permettiamo di sperimentarla, è quello stato spazioso, silenzioso e aperto in cui non siamo costretti a confrontarci con le necessità dell’altro da me, e che invece se riusciamo a starci dentro ci può regalare chiarezza riguardo le nostre fragilità e vulnerabilità, le nostre propensioni e i nostri bisogni, come di fronte ai dettagli di un paesaggio luminoso e colorato, e ad accettarli con apertura, gentilezza e accoglienza, priva di quella critica giudicante che spesso ci porta a non rilevarli.
Certo, bisogna riconoscere che dopo una perdita o una rottura dolorosa, nulla sarà mai più come prima, ma potrebbe essere diverso, anzi più adatto al nuovo me e quindi anche meglio…perché permettendomi con pazienza di incontrare e farmi guidare con curiosità e fiducia da questa mia parte sana e accogliente, farò esperienza, finalmente! di qualcosa che in me è in grado di prendersi cura dei miei bisogni emotivi profondi e sacrosanti, senza bisogno dei soliti comportamenti anestetici che creano dipendenza…e quindi poi, rivolgendomi nuovamente all’esterno, incontrerò qualcuno o qualcosa di più simile a me, adatto ad una nuova vita più piena e ricca…alla fine dell’inverno troveremo la primavera, con il suo vivo germogliare e una moltitudine di tiepidi profumi!
Approfondimenti dal web
Che sia la fine di una relazione o la morte di una persona cara, la perdita della fiducia dovuta ad un tradimento, l’esperienza del rifiuto, la perdita del nostro lavoro, un intervento chirurgico necessario per affrontare un qualche genere di malattia, il dover lasciare andare un certo modo di pensare o una credenza che ha ormai cessato di essere utile, abbandonare sogni, speranze e progetti…l’affrontare la perdita non è mai facile.
Ce ne accorgiamo bene in questo periodo di perdita collettiva, in cui invece che guardare con soddisfazione ai frutti della stagione che si sta concludendo, siamo costretti ad accettare ( a torto o a ragione non è questo il luogo della discussione) perdita, sacrifici, fallimento…
Perdita significa non solo lasciare andare la persona o l’oggetto desiderato a cui dobbiamo rinunciare ma, e soprattutto, quell’apetto identitario e quella parte di noi che si era formato in risposta alla sua esistenza, e al quale siamo abituati. Banalmente, per chi va in pensione, cesserà l’identificazione con il proprio lavoro, per chi perde una persona cesserà anche lo stato di moglie, o di figlio, nel quale magari ci siamo identificati da una vita o quasi.
Questa a mio parere costituisce la parte di lutto più difficile da affrontare perché ci mette a confronto con la nostra identità e la perdita di senso associata inizialmente ad una sua trasformazione.
Solitamente quello che si fa, e che ci consigliano di fare, è “non pensarci” per sfuggire a tutto questo dolore e senso di vuoto, oppure anche peggio di “pensare in positivo”, senza concederci di attraversare questo momento con la dignità di chi non vuole nascondere a sé stesso la propria tristezza. Come per tutte le emozioni negative spesso ci sforziamo di non sperimentarle, come se fossero stati molto pericolosi da cui sfuggire…
In realtà, quando ci permettiamo di restare a contatto con la tristezza e con il vuoto della perdita, impariamo a familiarizzare con l’alternarsi delle esperienze, fatto in sè del tutto prevedibile e naturale…e che accadrà ancora. La credenza che la vita debba essere un percorso lineare in ascesa verrà così piano piano sostituita da una sana accettazione della realtà, una realtà in cui possiamo soprattutto imparare a vivere in tutte le stagioni.
In questo ci può aiutare molto il contatto con la natura, dove il lasciare andare (che costituisce per noi l’aspetto più doloroso della perdita) fa parte del ciclo naturale dell’esistenza in cui ogni cosa viene integrata nel tutto, esistenza vissuta perciò nelle sue interrelazioni in modo circolare e interdipendente e non lineare.
Ma perchè questa esperienza circolare da negatività ricorsiva possa diventare piuttosto una spirale ascendente sta a noi, dopo la permanenza nel vuoto della perdita, assaporare quella spaziosità che permette crescita, maturità e lo svilupparsi di nuove esperienze. E questo ci aiuterà a costruire nuove parti di noi, e una nuova identità più adatta alla nuova situazione che stiamo sperimentando…per questo occore coltivare flessibilità, ci può essere molto d’aiuto.
Certo questi discorsi dal sapore un po’ troppo ottimista sono difficili da pensare quando il dolore ci morde nel profondo. E’ allora che ci viene in aiuto la consapevolezza (mindfulness) con cui siamo in grado di distinguere tra noi stessi e il dolore, con accettazione e decentramento e…tanta pazienza!
Del resto il dolore, quando ci permettiamo di sperimentarlo e di accoglierlo, è un potente motivatore al cambiamento, forse il più forte. Ed è quando cerchiamo di curare il nostro malessere, e facciamo qualcosa per ritrovare benessere e gioia profonda che troviamo nuove strade, impariamo cose nuove su di noi e sul mondo e cresciamo.
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A volte sento il bisogno di camminare nella natura, girellando come si fa per andare a trovare a sorpresa degli amici…ora non si usa più, e le nostre visite sono sempre precedute da un messaggio whatsapp e dal suo relativo segno di spunta. Ma quando ero ragazza si usava fare così, ovviamente perché non c’era altro modo, si provava a citofonare per vedere se l’amica o l’amico poteva “scendere”…
Così a volte, quando ho una giornata libera in un giorno di buon meteo, mi sorprendo a decidere a chi posso far visita, a quale montagna, a quale albero o a quale scorcio…fortunatamente loro ci sono sempre, e non si sentono “invasi” da una visita a sorpresa, ma anzi sembra che mi stiano aspettando, che siano lì per me…e a parte qualche nuvola un po’ dispettosa quando si presenta nel momento esatto di un’alba o di un tramonto, gli alpeggi i boschi e le montagne sono sempre molto accoglienti.
Da una vetta posso accarezzare con lo sguardo sia gli stami delicati di un fiore ai miei piedi, che la catena di monti lontani all’orizzonte, includendoli in un’unica visione che mi fa sperimentare la connessione.
Lo spazio disteso e aperto davanti agli occhi mi restituisce un’identità microscopica, eppure la solitudine di fronte alla profondità del cielo o ad una parete ripida e incurante della mia esistenza appartiene a questa esperienza di connessione, in cui divento una parte dell’universo e non più il suo centro. Meno insostituibile quindi, più libera e leggera, il mio sguardo aperto che non cerca ma trova e basta, come la piccola foglia ingiallita di un faggio che tra le altre sorelle è colpita da un debole sole invernale senza un perché. E si stacca.
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